Ogni settimana nelle strutture sanitarie di Torino e dell’area metropolitana si verifica almeno un caso di violenza ai danni dei medici impegnati nel proprio lavoro. È quanto emerge da un’indagine svolta dall’Ordine provinciale dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri di Torino presso le aziende e i presidi sanitari del territorio e presentata questa mattina dal presidente Guido Giustetto alla commissione Diritti e Pari Opportunità e alla commissione Sanità e Servizi Sociali del Comune di Torino.
Nel complesso sono 66 gli episodi di violenza fisica o psicologica compiuti in un anno ai danni del personale medico in servizio. L’86% riguarda medici ospedalieri e, in dettaglio, si sono verificati soprattutto nei Dea (45%), nei reparti (19%), in psichiatria (13,6%), negli ambulatori (10,6%) e in continuità assistenziale, ovvero guardia medica (3%). I dati si riferiscono all’anno 2017 e sono stati segnalati dalle stesse strutture sanitarie nel questionario sottoposto dall’Ordine dei medici.
Nei due terzi dei casi, il 64%, la violenza è legata soprattutto a insulti e minacce verbali, ma in un episodio su tre, il 29% del totale, la violenza è di tipo fisico e nel 15% arriva a provocare lesioni. Nel 56% dei casi le aggressioni riguardano le donne, una percentuale decisamente rilevante se si tiene conto le donne rappresentano poco più del 40% della forza lavoro.
“Si tratta però soltanto della punta dell’iceberg – commenta il presidente dell’Ordine Guido Giustetto -, perché le aggressioni sono raramente segnalate dai medici, spesso per sfiducia sul buon esito della segnalazione stessa o per timore di ritorsioni o semplicemente in quanto ormai ci si è rassegnati alla violenza. Riteniamo quindi che sia un fenomeno decisamente sottostimato”.
Ad oggi, solo il 57% delle strutture di Torino e dell’area metropolitana ha attuato misure raccomandate come la predisposizione di locali con vie di fuga agevoli, la presenza di sistemi di allarme, la localizzazione degli ambulatori in strutture sanitarie e la compresenza di altro personale in occasione di contatto con l’utenza. Appena il 29% delle strutture identifica l’utenza e il 14% delle strutture registra le telefonate. Tuttavia il 71% dichiara la presenza di guardie giurate o polizia e la presenza di dispositivi di sicurezza quali pulsanti anti panico, telefoni e cellulari, mentre l’86% delle strutture controlla gli accessi con codice, ha impianti video a circuito chiuso e illuminazione interna sufficiente.
Il Ministero della Salute ha già previsto che ciascuna struttura sanitaria attui un programma specifico per la prevenzione della violenza con una serie di iniziative mirate: diffondere una politica di tolleranza zero verso gli atti violenti (fisici o verbali), incoraggiare il personale a segnalare prontamente gli episodi subiti, facilitare il coordinamento con le forze di polizia, assegnare la conduzione del programma a personale addestrato e con risorse idonee, affermare il proprio impegno per la sicurezza delle strutture.
“Per ridurre in modo significativo gli episodi di violenza occorre innanzitutto far rispettare queste misure, che sono già esistenti – continua il presidente Giustetto -. È necessario quindi incrementare la prevenzione a vari livelli, dall’aumento della sorveglianza, all’implementazione delle linee guida sulla sicurezza sui posti di lavoro e delle tecniche di autodifesa individuale, all’intensificazione dei sistemi di segnalazione, sempre però tenendo conto che non va snaturata la finalità del servizio sanitario, che è quella dell’accoglienza. Occorre invece risolvere i problemi strutturali, non lasciare mai soli gli operatori, ma anche adottare iniziative legislative che considerino le aggressioni contro il personale sanitario un grave reato. D’altro canto, sarebbe utile che gli stessi medici acquisissero maggiori competenze relazionali per affrontare in modo più appropriato i pazienti che possono avere atteggiamenti violenti, un tema su cui l’Ordine ha puntato nell’organizzazione dei propri corsi”.
“Non aiuta certamente il fatto che negli anni si sia tolta autorevolezza al sistema pubblico a favore del privato, in molti ambiti e non solo in quello sanitario – conclude Giustetto -, così come senza un cambio della politica sanitaria per quanto riguarda il personale tutte queste misure preventive rischiano di essere vanificate. Servirebbe, ad esempio, una maggiore umanizzazione dei luoghi di cura: al contrario, provvedimenti come la riduzione del turnover determinano condizioni di lavoro difficili per il personale anche in termini di capacità di dare risposte ai bisogni di salute dei cittadini. Di conseguenza, il sovraffollamento degli ospedali e la difficoltà del territorio a garantire una vera alternativa in termini di cure rischiano di minare l’efficacia di qualsiasi iniziativa”.